
CHAPTER I.
Ho intervistato alcuni colleghi che hanno studiato e lavorano con la lingua giapponese.
Cina e Giappone sono vicini nel cuore degli italiani, se scegli di studiare giapponese o cinese hai davvero un biglietto assicurato per il tuo futuro felice?
Cinese e Giapponese sono oggi tra le lingue più studiate e ricercate, è sempre stato così?
L’idea per l’intervista è nata dalla grande solidarietà che mi ha dimostrato la comunità nippofila dopo la lettura del mio articolo sui Radicali della lingua cinese (leggilo qui).
L’empatia dei giappo-amici è giunta graditissima, ma riuscite ad immaginare da cosa nasce?
Sapevate che la lingua giapponese ha tre sistemi di scrittura? Che uno di questi è derivato dagli ideogrammi cinesi?
Rispondono alle mie domande:
–Federica Bruniera, traduttrice e boss di Ikigai Translations
–Stefano Cavalieri, responsabile marketing e comunicazione per Key Coffee Inc., Illy department
–Sara Pisano, traduttrice e localizzatrice freelance
–Fabiano Bertello, traduttore di fumetto per Edizioni BD (marchio J-POP) e Hazard Edizioni
L’intervista è divisa in due parti, ecco il primo divertente ed interessantissimo capitolo!
-Cinese e giapponese sono due lingue diverse?
Se stai facendo gli occhi al cielo digita 1; se sai che la domanda successiva è “puoi scrivere il mio nome in giapponese?” Digita sempre 1. Il tasto 1 serve a smaterializzare la persona che fa la domanda.
–Federica: 1111😀
–Stefano: 1111111
–Sara: Tasto 1… no scherzo! Sì, sono completamente diverse, sia a livello fonetico che sintattico che grammaticale. Però condividono il sistema di scrittura basato su ideogrammi, anche se il giapponese affianca anche altri 2 alfabeti sillabici.
–Fabiano: Sì
-Cosa sono i kanji? (Puoi udire il mio sogghignare sornione eheh!)
–Stefano: un sistema di scrittura tanto e affascinante quanto frustrante e anacronistico.
–Sara: Sono caratteri di derivazione cinese, utilizzati per le parti invariabili del discorso (radici dei verbi, aggettivi, buona parte dei nomi ecc.). Hanno due letture: on (foneticamente derivante dal cinese) e kun (di origine giapponese).
–Fabiano: “Kanji” è la pronuncia giapponese del termine cinese “hanzi”, ovvero “caratteri della dinastia Han”. Il giapponese, in origine, non aveva una forma scritta. I caratteri cinesi furono importati nell’arcipelago dai monaci buddisti, che li utilizzavano per la loro opera di catechesi. Questi li usarono sia come tali, importando la terminologia religiosa utilizzata in Cina, sia abbinandoli a parole di significato corrispondente o simile nella lingua autoctona, generando così una doppia associazione fonetica ai medesimi caratteri, che tutt’ora permane: la quasi totalità dei kanji, in giapponese, ha una lettura di origine cinese (o anche più di una, quando il carattere è stato importato a più riprese in epoche differenti) e una o più letture giapponesi, tanto che alcuni caratteri arrivano ad avere anche una decina di letture differenti, a seconda degli usi e del contesto.
-Come hai memorizzato i kanji?
–Federica: con dolore e sangue XD Scherzi a parte, secondo quando si tratta di memorizzare i kanji ognuno ha un proprio metodo. Io ad esempio ho bisogno di scriverli e riscriverli e riscriverli fino alla nausea, leggere molto ad alta voce scrivendomi le letture sopra i kanji sconosciuti e ricorrere ad associazioni mentali quando possibile.
–Stefano: L’università mi ha fornito le basi e tecniche per impararli a riconoscere e memorizzare, poi il grosso e’ avvenuto dopo, con calma e dedizione, soprattutto leggendo romanzi in lingua giapponese.
–Sara: Scrivendoli, scrivendoli e ancora scrivendoli. Quando ho frequentato l’università, quello era l’unico metodo che conoscevo e che ci era stato insegnato. Avevo un quadernone a quadretti grossi; ogni pagina era dedicata a un ideogramma di cui riportavo letture, significati e composti. E in quella pagina li scrivevo e riscrivevo fino alla nausea. Però è l’unico metodo che ho trovato valido, perché ancora oggi li ricordo alla perfezione. Dopo la laurea ho provato anche altri metodi (flash card, programmini come Anki, ecc.) ma non mi hanno permesso di fissarli nella memoria tanto quanto la semplice scrittura.
–Fabiano: In tutti i modi che la mia fantasia è riuscita a sfornare. Sperare di trovare IL metodo è pura illusione. Il nostro cervello ha il brutto vizio di annoiarsi in fretta, perciò, quello che ha funzionato dieci volte, la undicesima volta non funziona più. Ci sono caratteri con cui si trova il feeling al primo sguardo: li vedi una volta e sai che non li scorderai mai più, come il primo amore. Altri, potrai vederli cento volte e ancora dirai “cazzo, è la centesima volta che ti vedo e ancora non ho imparato chi sei!”. Il cervello funziona per associazioni e nessuno sa come e quando scatterà l’associazione giusta, perciò, sbizzarritevi a inventare metodi sempre nuovi! E soprattutto, il più possibile attivi! Guardare e basta, non serve a niente; copiare meccanicamente, serve a poco; cercare su un dizionario dei kanji (o degli hanzi), possibilmente per radicale, non per pronuncia, già serve di più; cercare di capire ogni singola parte del kanji cos’è e perché sta lì, è ancora decisamente meglio, ma non pensate di aver trovato la Mecca: anche quello, dopo un po’ perde di efficacia e, soprattutto, funziona principalmente quando già si conoscono abbastanza kanji da riuscire a riconoscere a colpo d’occhio i vari componenti.
-Quando hai sentito parlare per la prima volta dei Radicali?
–Federica: Durante la prima lezione di kanji all’università. La lettrice madrelingua ci ha spiegato subito cosa fossero e per ogni kanji imparato ci faceva evidenziare il radicale. Poi la professoressa di grammatica ha sviscerato il concetto quando ci ha spiegato come utilizzare il dizionario elettronico.
–Stefano: la prima volta che ne ho sentito parlare e’ stato direttamente da qualche collega che studiava lingua cinese. Nello studio della lingua giapponese, all’università, l’argomento non è mai stato affrontato in modo sistematico.
–Sara: All’università, durante le prime lezioni di lingua giapponese.
–Fabiano: Non ne ho idea, ma sicuramente non a lezione. Probabilmente quando ho comprato il mio primo libro di kanji. I miei allievi, invece sono stati più fortunati (?): ne hanno sentito parlare fin dalla prima lezione.
-Quali difficoltà hai affrontato nello studio del giapponese e quali gioie? E nel mondo del lavoro?
–Federica: Lo studio del giapponese per me è stato soprattutto fonte di gioie, perché per me è stata una passione che è andata crescendo. Parlare la lingua mi ha dato modo di conoscere il Giappone e il giapponese a un livello molto più profondo che “da semplice turista”, permettendomi di stringere amicizie che durano anche a distanza di anni. Per quanto riguarda le difficoltà, ho sempre trovato piuttosto ostiche le forme onorifiche, ma anche le particelle con un sacco di significati non mi stavano particolarmente simpatiche. Dal punto di vista professionale purtroppo il carico di richieste di traduzione dal giapponese all’italiano è ancora molto esiguo, ma ci sto lavorando!
–Stefano: Nello “studio” in se’ non ho avuto grosse difficoltà: se ho deciso di studiare il giapponese era perché mi sentivo molto motivato. Mi piaceva il sistema di scrittura, cosi complesso ma affascinante, il suono della lingua. Le difficoltà si sono materializzate nel momento in cui ho deciso di fare di uno strumento di comunicazione la mia skill principale per vendermi sul mercato del lavoro. Quando ho lavorato come traduttore ho incontrato difficolta derivanti dai diversi registri linguistici, soprattutto lo slang che, pur essendo largamente usato, non vien considerato come materiale di studio. Attualmente, invece, lavorando per una grossa azienda giapponese, anche li’ la lingua cambia sensibilmente quando ci si rivolge a un collega, un tuo superiore, un cliente. Passare da un registro all’altro mi risulta anche attualmente molto complicato. Le gioie ci sono quando ti accorgi che impieghi meno tempo a scrivere una mail business, o quando la gente non ti dice più “parli molto bene il giapponese!”, ma ti parla e tratta COME uno di loro.
–Sara: La gioia più grande è sicuramente quella di riuscire alla fine a comunicare con un popolo e comprendere una cultura ancora oggi lontana anni luce da noi, nonostante in questi ultimi anni abbia preso piede una certa moda nippofilia. Mentre studiavo era una soddisfazione quella di poter capire scritte e particolari dei cartoni che guardavo da bambina, e che allora mi sfuggivano completamente! 🙂
La difficoltà più grande è stata proprio quella relativa allo studio dei kanji: non sono troppi, ma sono troppe le letture e i composti! Un altro scoglio per me è il keigo e in generale la lingua che varia completamente al variare del grado di formalità.
Per quanto riguarda il lavoro, la difficoltà più grande, che riscontro tuttora, è quella di riuscire a vivere di solo giapponese. Non nego che, da traduttrice, la fetta più grossa del mio fatturato annuo derivi da traduzioni nella coppia linguistica inglese>italiano. È difficile riuscire a capire quale settore abbia veramente mercato: all’epoca dei miei studi pensavo che una specializzazione quale la mia attuale, ovvero la localizzazione e l’informatica in generale, potesse essere una buona scelta; invece è stato così solo in parte. Però quando ricevo degli incarichi, seppur non frequenti, ma che mi permettono di utilizzare una lingua sulla quale ho sudato parecchio… beh, la gioia è grande senza dubbio!
–Fabiano: Al di là delle difficoltà tecniche (i sistemi di scrittura, i linguaggi onorifici…), il più grande scoglio da superare è stato la sensazione di non progredire mai. All’inizio (passato lo scoglio dell’imparare i kana) si attraversa un momento di euforia, in cui sembra di procedere alla grande e che niente ci potrà fermare; passata questa stagione felice, si passa alla fase due, collocata grossomodo alla fine dello studio della grammatica di base: i progressi cominciano a farsi lenti e difficilmente percettibili, perché la maggior parte dei passi in avanti sono nel vocabolario, nella familiarizzazione con ciò che si era appreso fin lì e poco a poco nell’apprendimento delle regole della grammatica avanzata o del discorso informale. È un processo lungo e snervante, ma non bisogna abbattersi. Anche in questa fase, i progressi ci sono, anche se è difficile rendersene conto!
Nel campo lavorativo, la più grande gioia è stata la prima volta una casa editrice mi ha detto che era interessata alle mie proposte! Non riuscivo neanche a crederci! Mi sembrava di essere arrivato nel Valhalla! Il paradiso degli eroi! Ce l’avevo fatta! Hurrà!
La più grande delusione è stata quando quella stessa editrice, dopo mesi di lavoro, mi ha detto che non se ne faceva più niente. [fine di una breve storia triste]
Comunque, mai lasciarsi abbattere: anche quell’esperienza è riuscita a tornarmi utile! 😉
-Puoi dire qualcosa che nessuno sa sul Giappone o sfatare un mito?
–Federica: Sfatiamo un mito o due. Innanzitutto, quello degli accenti. Non so perché noi italiani abbiamo la capacità straordinaria di pronunciare tutte le parole giapponesi che conosciamo con l’accento sbagliato. Si dice ad esempio Sayònara e non Sayonàra, òsaka e non Osàka, Sàpporo e non Sappòro. Secondo mito, il povero monte Fuji, che da noi tutti chiamano erroneamente Fujiyama, in realtà per i giapponesi è il Fujisan (è vero che il kanji di montagna da solo si legge yama, ma in combinazione diventa san).
–Stefano: Non è vero che i giapponesi sono stacanovisti. E’ più giusto dire che impegnano molto tempo al lavoro. E’ ancora forte la mentalità che vivere la vita per il lavoro ti rende una persona degna di rispetto. Molta gente infatti arriva in ufficio molto prima dell’ora di inizio, e torna a casa anche molte ore dopo la fine della giornata lavorativa come regolata dal contratto. E questo non dipende sempre perché ci sono troppe cose da fare, ma spesso la gente si perde a fare cose inutili, fumarsi diecimila sigarette o fissare lo schermo, tutte attività che dall’esterno ti fanno apparire come una persona molto presa dal lavoro. Poi purtroppo, mancando di ore di sonno, li vedi che dormono ovunque: nei treni, nelle panchine delle stazioni, anche durante i meeting…
–Sara: Di miti da sfatare ce ne sono un’infinità. Uno per tutti è che spesso si crede che le metropoli nipponiche siano inquinatissime, viste le mascherine che indossano gli abitanti delle grandi città. Invece le indossano semplicemente quando sono ammalati, per limitare quanto più possibile il contagio.
–Fabiano: forse non tutti sanno che in realtà la migliore efficienza del Giappone rispetto all’Italia è anche dovuta a un deciso sovraimpiego di risorse: dove in Italia lavora una persona, spesso in Giappone ne lavorano almeno due.
Grazie a questi fantastici nippologi ho potuto delineare alcune linee di pensiero finora nebbiose:
—chi studia giapponese senza aver mai studiato cinese prima incontra grandi difficoltà nella memorizzazione degli ideogrammi, in questo caso infatti lo studio dei Radicali è vitale anche se non si è interessati alla lingua cinese. Quando studiavo giapponese non ho riscontrato nessun impedimento nella fase di memorizzazione, grazie alla mia pregressa conoscenza dei Radicali cinesi. Il giapponese mi ha abbattuta in molti altri modi, è una lingua tanto affascinante quanto ricca!
—come con il cinese, gli sbocchi lavorativi sono davvero svariati: bisogna avere una grande passione e salde capacità tecniche per poter raggiungere un ottimo livello sul mercato 😉
—la sezione sui falsi miti continua anche nella seconda parte, e come in questa ci darà grandi soddisfazioni: i giapponesi non sono solo manga e lavoro…che diamine!
A presto, con il CHAPTER II dell’intervista ai giappo-amici!